Taccuino di viaggio (2002/2003)

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Questo taccuino è quasi un diario, un percorso interiore in cui si fondono presenze reali e fantasmi. Documenta il periodo 2002-2003 ed il definitivo abbandono delle mie residenze in Germania. E’ come un viaggio verso il sud, passando dall’est. Gran parte di questi testi sono stati impiegati a brandelli in altri brani, come MATTINO e PER MANO CONDUCO MATILDE (da IL GIARDINO DISINCANTATO), GIROTONDO (da AMORE MIO – Love Songs und anderer Kram) e nel video I WAS A MILL.


I

…e allora non posso vederti. Mi dispiace…ma non posso. Take care. Yours. E allora non ti rispondo e inghiottisco, non solo saliva, non solo polvere, non solo il tramonto di un mite Settembre in discesa al 18%, non solo.
A un quarto alle sette la radio-sveglia attacca in crescendo. Questi stronzi l’hanno costruita o sistemata in modo che devo subirla, o sopportare l’alone che riverbera nella stanza, non so dove scollegarla, ci metto la maglia …
Emergo con tutte le montagne e gli arcipelaghi. Pachidermico. Oceanico. Lavo la pianura e la brughiera, un po’ di dentifricio sulle torri canine, una falciatina ai cespugli, tanto da irritare la pelle e lo specchio che mi guarda di traverso e si deodora alla salvia o al limone, tanto è uguale. Prendo la pillola quotidiana di diserbante e mi metto in viaggio aspettando che il diserbante faccia effetto su tutte le erbacce intrecciate attorno al cuore. Eccomi pronto a dimenticarti, basta pigiare il bottone. Clic. E invece sai bene quanto sia diverso, sai bene quanto ci voglia a ricostruire una città devastata. E sai questo e sai quello e sai più di quel che so io. E allora non ti rispondo e inghiottisco.

II

Ricominciamo tutto da capo, un piano levigato su cui la luce rimbalza senza accecare, unica geometria possibile la linea retta. Mi sono sorpreso ad aspettare il futuro, invecchio aspettando. Ed ogni volta qualcosa accade e il tempo se ne va per gioco. La mia fine. Anche lei attende. Mi attende. Ad ogni battito di ciglia. C’è molto spazio attorno a me e tanto, tanto tempo. Potrei decidere di essere un assassino, qualcuno deve pur farlo. Come sarei come drogato? L’eroina mi dona? Clic. Un’ istantanea. E adesso mi travesto da mulino a vento, quello che si vede dal finestrino a sud. Tutto il giorno a girare. Ne avrei tante da raccontare. Come quella volta quei due sotto di me sull’erba alta. Lui la baciava piangendo dolcemente. I bambini di lei giocavano a nascondino fra le spighe. Credo che si stessero dicendo addio. Io continuavo a girare, non potevo interferire con il mondo degli umani. Ma anche noi mulini ci diciamo addio ogni tanto. Ci guastiamo, allora attendiamo, attendiamo la nostra fine. Mi perdo. Ora sarò cartone animato. Ecco, in questo caso dipendo dalla matita del mio creatore. Decide lui ogni mossa. Se ho fame devo aspettare il panino con la senape. Ora mi costringe ad attaccare la ferrovia con gas nervino. No, aspetta, fermati…Sul mio altipiano luminoso posso decidere di fare tutto proprio tutto, il buono e il cattivo tempo.

III

Stanotte un piccolo cane bianco mi ha morso. Una stradina come quella delle biciclette passava attraverso il salotto di una anziana signora. Mi sembrava che questo cane mi avesse già morso tempo prima, mostro il piede alla signora, il piede dove in questi giorni ho preso la candida, il piede è fasciato e il cane bianco mi ha lasciato solo una macchia nera, ma si vedono le tracce del primo morso. Arriva poi il marito con un grosso cane nero che prende il mio microfono auricolare e non lo vuole mollare. Il padrone gli grida qualcosa. Improvvisamente mi trovo all’asilo con tanti bambini e bambine che devono eseguire un mio pezzo di musica. Le maestre si preoccupavano perché il pezzo non era molto preparato, ma comunque può andare. Devo fare una pisciata, subito. Prima dell’esecuzione. Nella pipì vedo tracce di sangue. 09/0103

IV

Stiamo sguazzando in una palude calda e umidiccia i cui confini sono stati disegnati precedentemente. Prossima fermata, fine della corsa. Il ritorno alla mia terra d’origine è impellente. Mi allontano come una lumaca; la scia ricama un odore proibito e familiare. Potrei parlarvi del nostro ultimo incontro sul ring, una battaglia di articolazioni, corpi e bocche; oggi, grazie al cielo è la sua giornata orale; la lumaca si avvolge discreta attorno alla cupola ed esplode in sottili linee arancioni e gialle; una fiammata, un’eco pigra che indugia nel giroscale. Vado matto per il budino alla vaniglia con le fragole. Me lo godo sui suoi seni che profumano di budino alla vaniglia con le fragole. Oggi sul tram ho perso il berretto di lana, l’ultimo vincolo che mi teneva legato a mia madre. Glieli succhio e provo nostalgia. Avrei voglia di piangere, ma mi viene da ridere. Martin sta perdendo sangue dal naso, si dice che sia per gelosia; alcune piccole chiazze rosse sulla neve mi risvegliano dal torpore post deflagrazione, mi trovo al mercato dove un piccolo gregge di evengelici intesse lodi in mezzo alla folla.
E’ venuto tempo di tornare da mia moglie.
In viaggio verso est.

V

A volte mi stupisco di quanto io sia felice. In culo a tutti quanti. Berlino sotto la neve, in una magnifica giornata di sole. Alla stazione una Polacca completamente fatta entra sul treno insieme al suo protettore, fatto anche lui. Inciampa nel primo gradino e cade a peso morto fra lo sportello ed il binario. Mi guarda con due occhi enormi, nonna che occhi grandi che hai! Everything is O.K., O.K.; Wilhelm, you gave me this shit. Wilhelm intanto si prodiga nel cercare un altro paio di birre, mentre l’audience si sforza di ignorare la recita. Dal poco che riesco a capire, l’attrice sta facendo ritorno in Polonia per Natale e il regista è senza passaporto. Il contropelo alla dogana è inevitabile, come lo scoppio di risate del pubblico soprattutto all’epitaffio: “but Poland is coming inside the European Union!”.
Alla stazione di Legnica il sole è quasi alla fine del suo viaggio. Io ho ancora un po’ di strada; la traiettoria mi riporta più o meno nelle contee dove dieci anni prima andavo a caccia, per teatri e selve radiofoniche. Pum…pum… presa! mia moglie, la preda! Mangiata, masticata e digerita. La portai con me sul cavallo al castello di mio padre. Celebrammo le nozze, pizza rossa bollente per tutti i sudditi del regno. Vivemmo per sempre felici e contenti. Senza contanti. Nessuno racconta mai il seguito della storia. Si ha paura di un crollo di stile. In verità quando il principe porta la principessa al castello di suo padre le cose cambiano. La principessa ha l’emicrania tutti i giorni. Deve badare ai bambini. La giovane serva invece, la villanella dalle tette grosse e profumate si occupa del principe, lo succhia tutti i giorni al tramonto dopo avergli servito tè di tiglio e finocchio al lamento del candeliere. Un giro di manovella indietro: quando Cenerentola viene portata al castello del padre del principe, smette di pulire la casa delle sorellastre e comincia a pulire il castello. A notte fonda, giace sotto il principe, rigorosamente sotto. Un altro giro di manovella indietro. Scopre che il principe non è un principe affatto, è semplicemente un servo della gleba che si fa il culo dalla mattina alla sera. Lei aspetta invano il suo ritorno. Le guance sorridenti si annebbiano. Lui bestemmia. Non ha soldi per pagare l’assicurazione e il bollo sul cavallo. Lei lava, stira, si addormenta con il ferro in mano; il castello brucia; bruciano anche il re e la regina. Brucia anche questa pagina di carta. Brucio anch’io e non se ne parla più.

VI

Ho in tasca la chiave del secondo appartamento. Si sono dimenticati di richiedermela, almeno spero che sia così e che non pretendano mesi di affitto arretrato. Cerco il numero 15 e finalmente lo trovo in una piccola corte al lato della strada. Entro con lei, constatando che abbiamo poco tempo, è quasi mezzogiorno.
L’appartamento ha l’accesso dal lucernaio. Contrariamente alle nostre aspettative dentro è completamente distrutto, ci sono mucchi di terra dappertutto, in ogni stanza. Cambio di scena. Ci torno più tardi con mio padre e mia madre, sembra tutto in ordine, sebbene vi sia molta polvere. I mobili sono comunque intatti.

VII

Il primo obiettivo è raggiunto: passare il Natale in famiglia, preservando il rito.. Mia moglie non mi bacia. Del resto anche a me non va, dopo sei mesi devo ridefinirne l’odore. Mia suocera invece mi ama tantissimo. Per il bene mio e della mia famiglia si preoccupa di incorniciarmi in una scuola di musica dove possa raccogliere la carità cristiana di un tozzo di pane per il futuro. Mi dipinge con il sorriso enigmatico degli asceti, il sorriso della Gioconda, impiastriccia un’icona in cui con l’indice alzato insegno a suonare il giro di do per tutta la vita, anche quello di sol. L’assedio comincia da vicino, senza nemmeno i preliminari. L’orgasmo coincide nell’intrecciare le mie membra spezzate e maciullate alle corde della chitarra. E’ per il tuo bene! Del resto nei paesi benedetti non è possibile vivere da artista. Il sindacato non protegge chi non produce pane, automobili e bombette puzzolenti al gas buriocratico. Cinque persone in una stanza: l’invasore, il neutrale, l’alleato, il bambino, l’assediato. Osservo la scena da sopra la credenza dove mi sono arrampicato per spollinarmi. Spiego le ali, li perdono di tutti i loro peccati e spicco il volo. Ora sono sui tetti di Piaskowa Gora, la neve batte le finestre della sarta che ride come la rana dalla bocca larga. Si pulisce la dentiera nell’acqua santa, la sera della vigilia. Il vicino di casa si affoga nel puro spirito diluito con succo di pompelmo. Nitroglicerina. Vapori di ammonio e trielina. Le strade cadono nel vuoto, i muri si sgretolano, il trionfo della fuliggine. Dall’alto contemplo i segnali orari e i telegiornali, mi chiedo il perché di tutto questo. Esploro l’accadere, il ripetersi senza ritorno. Mi incazzo un poco. Il mondo è depresso perché non riesce a fare ciò che vuole, paga il conto senza ricevuta. Ho pagato un biglietto molto caro ed ora pretendo il posto in prima fila. Anzi, voglio partecipare al film nei panni del protagonista, e se possibile del regista produttore. Ho pagato tutto questo molto tempo fa, e non ho intenzione di tornare indietro. Mi sono affilato le unghie sulla carta carbone e adesso sporco la pagina attorno alla scrittura, fra le righe, negli interstizi e nelle caverne ricolme di parole. Il sudiciume aumenta, mucchi di polvere nera e spessa si addensano sulle vie e sui marciapiedi. Dovunque posiamo i plantari ci portiamo dietro lo sporco. E’ inutile pulirsi le scarpe. Si attacca come colla, un lubrificante secco che avvelena campi, colline, fiumi e laghi, tappeti di casa, materassi, casseruole, reggiseni e alberi di Natale, si impasta con le acque dell’oceano. Finalmente avvelena uomini e animali e tutti sguazzano nella palude.

VIII

Piotr è venuto a trovarci. Lo andiamo a prendere alla stazione di Walbrzych Glowny. La città è deserta.
Giornata di discussioni inutili, tanto faccio come mi pare. Cercano tutti di convincermi di quanto sia egoista la vita da artista, per via della famiglia, del calpestare gli altri ecc. ecc.. A sera provoco mia suocera dicendo che le persone cambiano. Lei mi risponde che mi ama moltissimo. Ma che i miei pensieri sono perniciosamente vicini a quelli di “certi Tedeschi”. Cenerentola non mi succhia nemmeno stanotte, del resto non me ne frega proprio niente.

IX

Sul treno per Warsawa.
Assorbenti usati con strie di sangue nel W.C. Nel successivo la merda è accuratamente spalmata un po’ ovunque. Le chiazze affiorano come in una partitura aleatoria. Il controllore al quale facciamo notare con gentilezza polacca che l’acqua manca e che il treno fa vomitare, risponde con altrettanta gentilezza che il treno non è suo. Alla tentazione vendicatrice di mordergli dettagliatamente i polpacci probabilmente pelosi, sostituisco la vera fame per il panino al prosciutto. Mia moglie comincia a sorridermi maliziosamente. Non cedo.

X

Worpswede, inizi di Gennaio.
E’ finita. La mia casa sembra un magazzino. Gli scatoloni ammucchiati dialogano fra di loro, un chiacchiericcio polveroso che infastidisce le ragnatele. Mi muovo. Volto pagina. A malapena riesco a decifrarla. Carico la memoria sull’auto e mi trasformo in corsia, binario, fiume senza ritorno. Sì, perché non ritorniamo affatto. Probabilmente non esistiamo nemmeno. Eppure attraverso la nuvola biancastra intravedo gli ultimi rami delle foreste proibite. Perdute. Ritrovate. Perdute di nuovo. E i fiori. Il profumo infantile e adulto allo stesso tempo, le curve solide e abbondanti, una sicurezza internazionale. I boccioli dall’alito latte e miele. E tutti i paesaggi che possiamo immaginare insieme, simultaneamente, allo specchio… e poi il veleno, la discontinuità, un piccolo paesaggio che inceppa il meccanismo e si deve ripartire da capo, con le trattative e il compra-vendi. Ella possiede un tipo di veleno non letale, ma alquanto doloroso che apre ferite profonde e dalla pelle penetra giù giù lungo la galleria, e ti infiamma la linfa e alcune delle motivazioni principali.
L’ansia del ritorno aumenta ad onde. Una marea grigia e irreale mi inghiotte si fa buio.

XI

Mi immagino il Ring come una partitura. Un pentagramma in circolo che suona in scrittura automatica i veleni quotidiani, le cadute di stile, l’amore e la vergogna e tutto il resto. La vera città sta ovunque. Cazzo, Marcello deve riportarmi in Italia e non si fa vivo. Alan aspetta di sentirsi disciplinato da me. Peter sembra tranquillo, ho detto sembra. Andreas è stressato. Da mesi non leggo un giornale italiano, non so nemmeno se il Sacro Romano Impero del Meridione esiste ancora oppure se si è sparato un colpo alla vescica, auto cancellato, o semplicemente congedato. Ma dovrebbe esistere ancora perché stamani mi ha chiamato mia moglie con il problema delle bollette da pagare, mentre io ho il problema del capolavoro. C’è neve dappertutto, bianca e grigia. Ricomincia a nevicare, su Berlino, su tutti i Kindergeld, gli Erziunsgeld, i Kebab, i boschi, i Private Grundstück. Da Alan si mangia solo carne, non c’è modo di educarlo ad un po’ di verdura. Da Johanna si mangia solo frutta. Da Andreas la migliore pasta napoletana. Patrick ha la tavola sempre apparecchiata con formaggi, dolci, riviste, rotoli di carta igienica, lenti di ingrandimento, piatti puliti e sporchi, caramelle. Ed io continuo ad avere fame. Una grande fame di tutto ciò che mi circonda. Avrei voglia di leccarmi un paio di queste puttanelle dell’Ost, in una vasca da bagno come quella di Leszek e Jola. Tutte e due. Insieme. Non meno di 23 anni, non più di 30. Moglie mia, figlia mia oh quanto mi mancate, Mariola riderebbe delle figure retoriche e del tono cinematografico, non si arrabbierebbe. Sì, un po’ si arrabbierebbe. Molto. Si incazzerebbe come una bestia. Mi incazzerei anch’io al suo posto. Ci rincorrevamo. Facevamo progetti. Fiori. Gli occhi oceanici, il sorriso asimmetrico, le tette grosse, la gonna nera. Eri bellissima all’Hotel Kopernika, in attesa degli ospiti ti scaldo la mano, ti lasci un poco andare.
Devo vedermi con Peter, sono in ritardo. Mangeremo vegetariano, parleremo di musica e di donne. Mi congedo anch’io insieme a tutti gli Italiani, saluto Mameli e tutti i Soldati di Cristo, fra Papestr. E Tempelhof, sul Ring. (13/01/03)

XII

Un vecchio signore con il cappotto nero mi si avvicina. Il sole gli ha liquefatto le lenti spesse degli occhiali che colano lava gelata sul pavimento della cattedrale. Si spoglia, è completamente nudo. Si muove indifferente lungo la navata centrale. La chiesa si allunga ad ogni passo, elastica, e così il suo viaggio. Ci avviciniamo al paese assente. La nostra estinzione. Inesorabilmente, come un bolero stanco che procede dalla campagna perduta alla città ritrovata. Osservo le quattro Branderburghesi sorridenti alla mia sinistra crescere e diminuire nei colori estivi, poco a poco ritirando verso la (loro) fine. Due si perdono lungo la linea. Baci e abbracci, promesse di rivedersi, promesse, promesse. Vanno incontro alla loro fine, una morte orchestrata con cadenza semplice. Volto pagina. In bicicletta con mio padre dietro. Perdiamo l’equilibrio, la bicicletta sbanda e il manubrio urta la testa di un bimbo senza fargli alcun male. Ma siccome il bimbo piange, i suoi genitori pretendono un risarcimento. Discussione.

XIII

La sabbia si alza improvvisamente, oscura il sole e il mio tragitto. Sono nella terra di mezzo, senza senso. Imparo l’alfabeto del non fare. Non agire. Fermarsi. Accettare la pagina vuota, l’assenza, il non. Imparo. Impossibile toccare le acque del Baltico, i bambini sono bellissimi. Arrivo alla quiete quasi totale. Momentanea. Un leggero vortice mi trasforma, passa una suora con il suo gregge. Il vento del mare tappa l’odore d’incenso e mobili ammuffiti. Devo rinunciare ad ogni possibilità di salvezza per la mia anima, (s’intende). Matilde sta facendo l’imitazione del prete, pesci, alghe e gabbiani ascoltano con molto interesse.
Siamo arrivati a Piatki, l’ultima terra prima di Kaliningrad. La sabbia della spiaggia produce un suono strano ad ogni passo, come un cigolio di scarpe nuove sul pavimento, dato dallo sfregamento della sabbia sulla sabbia. Per pigrizia non ho portato con me il registratore e nemmeno la macchina fotografica. Piccoli pescherecci riposano in pace a riva. Alcuni pesci morti. Una torretta sulle dune anticipa di tre km la dogana russa. Poi un camion militare abbandonato pieno di bandierine, una ruota nell’acqua. Riposa in pace. Benedico anche lui. Corde, ferri vecchi, altra roba, chissà da quanti anni è lì. Il deserto cresce mano a mano che mi avvicino alla frontiera. Solo qualche tendina qua e là, un riparo provvisorio dai venti, solo provvisorio, penso. Ad 1 km dalla frontiera mi prende una paura indescrivibile, rallento, mi volto e torno.

XIV

Domenica pomeriggio. Alle 18,30 suonano le campane che ho udito stamani. Il concerto si sviluppa in crescendo, una spirale metallica e luminosa; l’epicentro è sulla cattedrale di Baden-Baden. Mille campane. Poi il silenzio. Alle 18,45 un breve carillon. Di nuovo le campane suonano maestose. MI DO LA MI DO LA. Impossibile tornare. RE RE RE RE RE. Mi spengo per lasciare posto alle ombre. Un leggero alito di vento assopisce gli ultimi rintocchi, smussa gli angoli, chiude gli occhi alla città. 14/09/03 Due sere fa, alla Gondola, ho conosciuto Carmen, una fachira tedesca che alterna i giochi di fuoco, chiodi e vetri alla cura di bambini profughi. Una specie di mangia-dischi insopportabile che parla in continuazione, completamente concentrata su se stessa, sui soldi e sul cibo Italiano.

XV

Benvenuti a bordo di Trenitalia. S’informa la gentile clientela che parlare ad alta voce o tenere alto il tono della suoneria del telefono cellulare può arrecare disturbo ad altri passeggeri. Si prega di moderare il tono della voce e tenere basso il volume della suoneria o spengerlo. Is this the train to Mainland? Yes. Do you come from Japan? Yes, how do you see? Well, you’re not a black and I suppose you’re not a Finnish.

XVI

Passiamo il tempo a decidere chi ha ragione o torto. Più o meno tutta la vita. Hanno ragione i tafani. Ti si posano sulla pelle sudata mentre cammini, non te li levi più di dosso. Hanno ragione i piranas e i coccodrilli. Ti sbranano senza regolare processo. Per sopravvivenza, ecco tutto. Hanno ragione il sindaco, il prete, la mamma e il papà, soprattutto la mamma, il Vangelo, Vangelis, mia suocera. E ha ragione il pozzo su cui siedo, che ingoia la notte e cela l’abisso…un piccolo soffio di vento e giù, nella vertigine elettrica, nel passato remoto o futuro anteriore. Abbiamo torto: io, naturalmente; i miei colleghi bambini, i bugiardi e gli svogliati, i principi e le principesse. Gli astronauti e i palombari. Gli scemi dei villaggi (in ogni villaggio ce ne è uno). E K., sì proprio lei. La osservo dal mio studio coi miei occhiali bio-cibernetici. Sta cogliendo gli zucchini nell’orto. China sulle piante a 90° la vestaglia le si ritira come il Mar Rosso, rivelando il contrario del tanga (le mutande stile nonna). Do inizio a fantasie pelose. M’immagino all’altro lato del misto cotone le due belle tette ciondolare all’unanimità, sfiorando le foglie degli zucchini (che tra l’altro sono spinose). Potrei metterla incinta così, da quella posizione. Troppo tardi. Ci pensano già gli zucchini. Due di loro s’inarcano come cobra flautati, cercando di ipnotizzarla. K. dapprima impietrita dal terrore, rompe i sigilli e scappa, lasciando cadere il canestro. Circa dieci zucchini freschi, appena colti, la inseguono. Altri si staccano dalla pianta. K. inciampa in un peperone, per lei è finita. La raggiungono e la immobilizzano. K. grida inutilmente, tanto nessuno la sente (a parte me con il mio super udito). Un fiore di zucchino le carezza l’imene, uno zucchino le bagna il collo di rugiada. Sembra che a K. cominci a piacere il gioco. E’ pronta. Arriva la zucca in un crescendo dai toni drammatici. Ecco, è fatta. Le si avvicina. Le spara i semi nel ventre ed esplode come un’ape suicida. K. è bellissima. K. è rossa in viso. K. è incinta. In poche ore partorisce molti fiori, uno per ogni seme di zucca, impossibile stabilire quanti. Il numero aumenta a vista d’occhio. L’esercito di zucchini neonati cresce rapidamente in numero ed età. Appena adulti ed autonomi si schierano in partiti politici e cominciano a litigare su chi ha ragione e torto. Distruggono tutto. K. è invecchiata rapidamente, le cadono i denti come rami secchi, i seni si sgonfiano come palloncini al terzo giorno. Prima di chiudere il proprio sipario sul mondo K lascia una modesta eredità alla zucca, ai figli dei figli dei figli: una scatolina di latta, una piccola radio a pile, un anellino d’oro con una pietrina consumata, una pentola a pressione in offerta speciale, un libretto al risparmio con pochi spiccioli. Va in paradiso e viene canonizzata, rappresentata con angeli e santi in immaginine sacre da baciare e bagnare d’acqua benedetta. Ma ecco che arriva S. a raccogliere le melanzane. I miei super-super occhiali non mi tradiscono mai. Si china a 90° rivelando il contrario delle mutande stile nonna (il tanga). Vedo il pelo brillare alla luna. Il ciclo ricomincia. (21/09/03 Gattaiola)

XVII

Oggi la memoria si è azzerata all’improvviso senza avvertirmi. Un’intera popolazione di dati se ne è andata semplicemente, senza avvertirmi. Hanno cambiato destinazione semplicemente, senza avvertirmi. E mi ritrovo a piedi, a ripetere azioni automatiche di cui faccio fatica ad intuire il senso. Petra ha cominciato a piantare il coltello nella schiena di Giampaolo, naturalmente vuole dei soldi, poi sfilerà la lama, con dolcezza, come se niente fosse accaduto. Succede così. Da un momento all’altro. Oscar arriverà domani notte, da Venezia. Un aereo in perenne ritardo per Parigi. Un treno da Agrigento, senza acqua. Un colpo di tosse spenge la candela. Così. Semplicemente. Senza avvertirmi. Non ho salvato niente, non una canzone, non un appunto. Neanche te. Tanto non ti fai viva. E neanche morta. Te ne stai rintanata nella tua merda, col diritto di fare tutto, sacrosanto e profano. E invece no. Tu sei ancora in memoria e ci resterai finché regge il sistema. Poi sarà una manciata di polvere portata dal vento a rivelarti come fossile, nascosta in una pietra focaia nella teca di un museo. La chitarra sta dormendo. Le mie dita, pietrificate da una strega informatica, producono solo numeri da formattare in seguito. Un arpeggio in codice binario sostituisce gli accordi preferiti, ed è ripetizione come lo era prima. E’ dimenticanza e ricostruzione, preservazione della polvere per la polvere. Fra 50 milioni di anni non ci saremo più. Voi non ci sarete più.

XVIII

Per mano conduco Matilde nei campi, alla ricerca di pozzanghere e fango fresco. Saltiamo un fosso, ci ritroviamo davanti ad una conigliera dove le vittime girano su se stesse, in attesa di inciampare sulle olive amare. In umido. Con tanto pane. Oltre la spirale della morte, la capra e la cavalla ci riconoscono, attendono la pannocchia quotidiana. Ma il campo è trebbiato, non c’è più niente da distribuire o moltiplicare. Grazia e Sergio stanno somministrando fieno e focaccia secca alla capra. Il cielo promette cascate e mulinelli. Come va il lavoro? Bene, grazie, mi hanno licenziato da tutte le scuole, ora sono libero come un pesce (libero di farmi mangiare come un pesce). E a te come va il ristorante? Insomma regge. E’ un momento delicato, l’euro ha rovinato tutto, nessuno spende più un centesimo. E il mio socio se ne vuole andare, va bene che è un cacacazzo, scusa la parola. E’ un cacacazzo? Sì, è un cacacazzo. Finché reggiamo andiamo avanti. Matilde si sporge già verso la prossima fermata, casa di Rachele. Ciao. Ciao, stammi bene. Lascio le principessine a giocare in abiti da sposa (quelli rosa) e torno a casa sotto un cielo in bianco e nero. Casa dei miei. La porta accanto alla nostra. Una luce è accesa, devono averla dimenticata, perché l’auto non c’è. Giro per l’orto, ancora basilico e bietola da cogliere. Gli ultimi pomodori, depressi. Ritorno. La luce adesso è spenta, ma la porta è chiusa. Giro la chiave. Silenzio. Buio. Chiamo mia madre. Mi risponde una voce fioca. Salgo le scale ed entro nella sua camera. E’ sdraiata al buio, il lumicino di una sigaretta accesa si muove lentamente, come un satellite in senso antiorario. Cosa fai lì al buio? Non so cosa fare. Perché non leggi un po’? E’ tutto il giorno che leggo. Mi è tornata in mente la mia senilità giovanile, la memoria dell’oscurità, un’epoca in cui mi sono ammalato di solitudine; mia madre ha cominciato molto prima a divorarsi lentamente, con una pazienza infinita. Ha attaccato lo stomaco, quando ero bambino. Poi la testa quando ero adolescente. Schiena, gambe, ginocchia, quando ero adulto. Ho perso le sue tracce quando ero nuovamente vecchio. Appena ho provato a resuscitare è rimasto solo il lumicino della sigaretta accesa, nella sua camera al buio, ad illuminare il peso della sua insoddisfazione. Peccato che la mia prima reazione, di pelle, sarebbe quella di inseguirla con un bastone, senza colpirla, solo per spaventarla, con le mascelle abbassate tipo orco. Oggi però ho sentito per la prima volta tutto il peso della sua angoscia ed avrei voluto abbracciarla. Ma non l’ho fatto. L’ho trattata con la solita freddezza. E sono svanito nel nulla, discretamente, quasi in segreto.

XIX

Attraversammo l’oceano a piedi. Camminammo sulle acque come su di un tavoliere pietrificato dalla paura. L’incendio divampò e il mare si trasformò in una sterpaglia secca e pruriginosa, urticante ad ogni paso. Di pesci ne ho visto parecchi, infilzati come spiedi sui coralli, in attesa di essere digerito. Mastica, mastica. Il mondo si riduce in poltiglia. Come le ferrovie statali. Come lo scempio dei corpi nell’amore. Siamo ancora in viaggio, mia moglie ed io. Attraversiamo le fatiche quotidiane, divertendoci. Senza troppo clamore. Ci accontentiamo dei piccoli progressi giornalieri. E il dolore, il vero dolore sta intorno, gira concentrico attorno al nostro asse. Per ora dimoriamo nella grotta di Didone, al centro della trottola. Galleria. Approfitto del buio per rubarti quel poco di verginità che sei riuscita a salvare sulla lama affilata del tuo sorriso. Un pizzicotto fra le tue gambe. E ti scocco un bacio che ho conservato a lungo nella faretra, forse destinato a qualcun’altra. L’incendio è quasi spento, dominato. Il mare torna ad essere quello di sempre, una distesa mistica di vita e morte. E allora non posso vederti… mi dispiace, ma non posso. E allora non ti…

Worpswede, Walbrzych, Berlino, Sopot, Baden-Baden, Gattaiola 2002/2003